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Stanza 707, i quasi delinquenti di Francesco Merlo

di Barbara Oliveri e Roberto Sammito

Stanza 707 è il primo romanzo del giornalista siciliano. Un noir allegro in cui i ladri lo sono solo a metà, come il nostro mondo in cui siamo quasi tutto ma non siamo niente. Quasi ladri in un paese dominato dalla quasità

Due giovani si ritrovano in una stanza d'hotel a Parigi, vogliono commettere un furto di gioielli. Vorrebbero rubare un favoloso diamante, il colpo non presenta particolare difficoltà. Tutto però si complica quando le vittime, per nulla arrendevoli, reagiscono dando l'allarme. I quattro si trovano così costretti a convivere per un po' all'interno della stanza 707. Questi gli eventi attorno ai quali si snoda la trama di Stanza 707, romanzo d'esordio del giornalista Francesco Merlo. Un noir che presenterà anche a Catania, all'interno della rassegna letteraria del Teatro Stabile, Librinscena.

In tanti ti conoscono per la più che ventennale attività di giornalista, sei una delle firme più apprezzate in Italia. Adesso ti ritroviamo in veste di scrittore, abbandoni il rigore giornalistico per la libertà della narrativa. Come mai hai fatto passare tutti questi anni prima di pubblicare un romanzo?
Continuo a pensare che i giornalisti non dovrebbero scrivere romanzi. In realtà, in Italia tutti scrivono libri: cantanti attori, domatori di pulci e trapezisti. Tutti scrivono gialli nel paese in cui non c'è nessuna inchiesta risolta da Portella della Ginestra ad Avetrana, da Amanda a tutte le stragi di Stato. Nel paese dove le indagini non le sa fare nessuno sono tutti giallisti, ogni 25 italiani c'è un giallista. Allora mi è venuto in mente di prendere in giro il genere ma mi sono imbrogliato, essendo un siciliano un po' pirandelliano ho cominciato a prendere in giro me stesso ma alla fine mi sono infilato dentro questo genere ed è venuto fuori quello che è venuto.

Stanza 707 è un noir in cui troviamo ironia e parodia.
La chiamerei allegria, ironia e parodia sono cose che rientrano nel genere. Il mio vuole essere un romanzo allegro e naturalmente nell'allegria c'è il meglio di noi.

Nel romanzo due ladri tentano un furto di gioielli ma rimangono bloccati in una stanza d'albergo insieme alle due vittime. I ruoli si invertono, i ladri sono i più deboli?
C'è un po' l'Italia davanti al mondo. Questi due delinquenti a metà, che siamo noi, sono due catanesi un po' spiantati, due ladri irrisolti, sono appunto il nostro mondo. Il mondo del quasi. Noi che siamo quasi occidentali e quasi orientali, quasi europei e quasi africani. Anche il meticciato che altrove è una doppia pienezza da noi rischia di essere un quasi. Noi l'inglese lo sappiamo quasi, la storia la studiamo quasi, siamo quasi moderni e quasi antichi. Quest'idea della quasità italiana che poi alla fine si scontra invece con la pienezza e non capisce le grandi cose che le passano davanti.

Questo è un romanzo ma sembra che si stia raccontando l'Italia. C'è un po' di rigore giornalistico in questo romanzo?
Io credo che il giornalismo non è un'attività da rigore, naturalmente non è nemmeno un'attività da sbracatura. Però nel giornalismo è consentito quello che Indro Montanelli chiamava l'approssimazione nobile dovuta alla fretta che invece nei libri non dovrebbe esserci. È la stessa cosa secondo me riguarda anche la scrittura, cioè la parola che nel giornalismo può essere anche eccessiva, iperbolica, nella letteratura deve essere controllata o dal genere o dallo scrittore che deve stare attento alla sua mano. È abbastanza normale che uno che ha trafficato con le parole tutta la vita poi un giorno dice “adesso provo ad usarle invece che trafficarci, con le parole”.

Antonio Gnoli su La Repubblica dice che dalle pagine del libro sembra affiorare la figura di Leonardo Sciascia. Secondo lui lo scrittore siciliano rivivrebbe nel segreto di questo romanzo. Sono parole che ti fanno piacere?
Considero Sciascia un classico, l'ho amato, l'ho conosciuto, lo considero un gigante della lingua italiana ma non sono sciasciano e non mi piace lo sciascismo. Penso che se fosse vivo metterebbe nei suoi comandamenti il superamento di se stesso. Credo che gli epigoni di Sciascia facciano male alla Sicilia. Non dico quanto la mafia ma un po' di male lo fanno perché inventano una Sicilia di carta che non funziona e dalla quale Sciascia ha preso le distanze già ne Il giorno della civetta. Questa idea della sicilitudine, della sicilianità, fa male a tutti. L'idea che noi siamo speciali, che il pomodoro è più buono, che il sole come splende in Sicilia non splende da nessuna parte, che come amano i siciliani non ama nessuno, che una dormita a Catania è meravigliosa, che uno sguardo è già una seduzione, tutte queste sono stupidaggini. Ce le portiamo dietro e poi diventano alibi per tante cose che non funzionano.