La lingua e la memoria: “Nostalgia” di Mario Martone

Marta Anna Bertuna, laureata in Comunicazione della Cultura e dello Spettacolo al Disum di Unict, ha seguito, come inviata del progetto Eunice, la 37.ma Mostra del cinema dei Mediterranei per raccontare il rapporto fra lingua e memoria nella pellicola di Martone, candidata a rappresentare l’Italia ai prossimi Oscar

Marta Anna Bertuna

Alla secciòn official della 37^ edizione della Mostra de València - Cinema del Mediterrani ha concorso anche l’Italia, rappresentata dall’inconfondibile marchio lirico di Mario Martone.

Nostalgia, adattamento cinematografico dell’omonimo romanzo di Ermanno Rea, già presentato a Cannes nel 2022, è un’immersione nel ventre materno della Napoli più dura e spettrale, avvolta nel fascino delle sue dolorose subculture.

Dopo quarant’anni trascorsi tra il Libano e l’Egitto, l’imprenditore Felice (Pierfrancesco Favino) ritorna a Napoli, luogo di origine, in cui alberga la memoria. Per gran parte della sua vita il protagonista ha aderito al mondo arabo, di cui ha acquisito lingua e attitudine. Parla un italiano bizzarro, impacciato, si muove per le strade del Rione Sanità come un forestiero inesperto, appare trapiantato in una realtà che non sembra essergli mai appartenuta. 

Al contempo, Felice ritrova la madre, ormai anziana e quasi non vedente, con cui si riaccende una memoria sensoriale, corporea, che trascende il tempo e la divisione. La vasca in cui Felice lava la madre è il luogo della rinascita e della purificazione, in cui l’acqua porta via il rancore, ma non il ricordo; il protagonista ribattezza e si ri-battezza, in virtù di un alto credo mai rinnegato.

Tuttavia il Rione Sanità è molto più di un luogo dell’infanzia e degli affetti ritrovati: è terreno di insidie e di turbamento, lo spazio aperto in cui il peso del segreto non può essere sopportato. A Napoli, quarant’anni prima Felice non ha lasciato solo la madre amorevole e accudente, ma anche l’amico fraterno di gioventù, con cui condivide un oscuro passato. 

Oreste (Tommaso Ragno) è l’amico fraterno con cui da adolescente si dilettava in piccoli furti e risse di quartiere, durante uno dei quali ha ucciso accidentalmente il proprietario di una falegnameria. Da allora, dopo la fuga di Felice in Egitto, Oreste è diventato un boss camorrista, conosciuto da tutti con il nome di Malomm, per la sua cieca e implacabile violenza.

L’incontro tra i due, dopo anni e anni di distanza (un intenso e devoto Pierfrancesco Favino e un cupo e scarnificato Tommaso Ragno) è un perfetto connubio tra una fredda action tarantiniana e un dialogo introspettivo alla Ingmar Bergman: in esso punte di amara nostalgia si alternano ad altre di spietata efferatezza, tali da far presagire l’imminente tragico epilogo. 

L’onta del tradimento non può essere cancellata, il sacrificio deve essere compiuto. 

Il dialogo tra i due è, altresì, la prova di come la fedeltà possa coesistere con la vergogna, il rancore con la vicinanza, i codici della cultura criminale con un’umanità autentica e sofferta. La parola, colma di una napoletaneità smarrita ma mai perduta, è l’arma per incidere sulla memoria con un taglio profondo e irreversibile.

La Napoli raccontata da Martone è una superfice infuocata, avvolta da suoni e colori opprimenti, che trasuda ostilità e veemenza. 

Gli spazi individuati dal regista, dalla vecchia casa della madre, alla parrocchia del quartiere Sanità (in cui Don Luigi, prete progressista, svolge attività educative per sottrarre figli di malviventi alla camorra), il ghetto/nascondiglio di Malomm, sono luoghi simbolo di realtà interconnesse, organi di una medesima struttura sociale di una tradizione secolare, impossibile da smantellare. 

Napoli diventa così al contempo immagine di un dramma e della sua resurrezione, dello smarrimento e della redenzione.