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Perché ricordare Abbas Kiarostami?

di Alessandro De Filippo

A pochi giorni dalla scomparsa del maestro iraniano, Alessandro De Filippo (Storia e critica del cinema) propone una lezione speciale per questo pomeriggio. «Non è la nostalgia dei miei vent'anni che mi spinge - spiega - ma la presa di coscienza che quel mondo del cinema non esiste più»


Lunedì 11 luglio, a partire dalle 15, al Monastero dei Benedettini, il corso di Storia e critica del cinema tenuto dal professore Alessandro De Filippo dedica una lezione speciale al maestro iraniano scomparso pochi giorni fa; alle 21 proiezione di "Il sapore della ciliegia" a cura di Learn by Movies (vai al programma). Di seguito il suo personale ricordo del regista.


Quando nel 1993 il Cinestudio Ariston programmò in rassegna due film di Kiarostami, pochissimi erano gli spettatori che lo conoscevano. I film erano E la vita continua (1992) e Close-up (1990).

Fu una folgorazione, perché non avevamo mai visto niente di simile.

In quegli anni non era facile accedere al cinema d'autore. Spesso le opere più interessanti non venivano scoperte dal mercato Home Video, che allora utilizzava esclusivamente il supporto VHS. Quindi i film si potevano vedere nelle rassegne illuminate, come il Cinestudio, oppure si andava a caccia dei titoli degli autori amati nei festival del cinema, in giro per l'Europa. Non c'era altro.

Internet impiegava 3 minuti per caricare una fotografia a bassa risoluzione e il mondo della distribuzione audiovisiva non aveva Amazon, ma solo qualche videoteca a cui si accedeva come degli adepti (ricordo, a Ragusa, la meravigliosa Casablanca).

Non è la nostalgia dei miei vent'anni che mi spinge a scrivere, ma la presa di coscienza che quel mondo del cinema non esiste più. Era un mondo faticoso, ma rassicurante, coerente nelle possibilità che offriva a chi voleva fare ricerca e preventivava un certo numero di sacrifici. Ricordo i viaggi in Panda 750. Aveva solo 4 marce e si surriscaldava come un boiler, sull'autostrada Catania-Messina. Ma bisognava andare tutti i giorni, dalle 9 di mattina alle 2 di notte al Festival per eccellenza, in Sicilia, quel meraviglioso geyser che era TaoCinema, con la direzione artistica di Enrico Ghezzi (1991-1998). Lì non solo trovavamo il cinema che ci entusiasmava e ci conquistava, ma c'erano anche gli autori dei film proiettati nelle sale del Palazzo dei Congressi e del Teatro Antico. Non c’erano i divi, come oggi, ma gli autori, che si lasciavano avvicinare, intervistare, che davano consigli, aiutavano nelle ricerche di tesi di laurea presuntuose, debordanti, scientificamente sconsiderate, ma coraggiose.

Prima di tutto, c'era una comunità. Ecco, la differenza principale tra oggi e quel tempo lì, il motivo per cui forse quella realtà ci manca tanto, sta proprio nel senso di comunità che i grandi autori e i critici – quelli strutturati insieme a quelli giovani – condividevano attraverso l'esperienza della visione collettiva. E in fondo, andare al TaoCinema di Ghezzi ci sembrava il normale completamento degli studi umanistici, una sorta di summer school. Dopo la sessione estiva, dopo aver aggiunto due o tre esami sul libretto blu, si andava a questo corso di approfondimento, tematico, sul cinema d'autore.

A più riprese, tra il 1993 e il 1997, incontrammo Abbas Kiarostami: una volta era in giuria, un’altra presentava in una straripante conferenza stampa Il sapore della ciliegia, che aveva vinto la Palma d’Oro a Cannes, ex-aequo con The sweet hereafter di Atom Egoyan. Una volta, invece, fece una lezione nella sala conferenze del San Domenico di Taormina. Ricordo perfettamente quell’incontro: Kiarostami, ieratico, occhiali scuri e tono di voce basso, misurato. Sembrava timido. La sala era enorme e senza aria condizionata, gremita all'inverosimile di critici cinematografici, giornalisti e fotografi. Le porte-finestre spalancate sul cortile in cotto lasciavano entrare, insieme all’afa di fine luglio, una luce colore albicocca. Kiarostami parlava in farsi, con la cantilena inconfondibile della lingua persiana, tradotto come sempre da Babak Karimi. E fu una lezione di cinema indimenticabile. Di sé, disse che non aveva mai sperimentato il cinema professionale. Aveva fatto il pubblicitario, il grafico, il pittore, l’illustratore di libri per bambini. Poi, lavorando proprio con i bambini aveva cominciato a utilizzare la macchina da presa. Ed era nato Pane e vicolo, il suo primo cortometraggio, prodotto dall'Istituto per lo Sviluppo Intellettuale di Giovani e Adolescenti. Tutto era avvenuto naturalmente, senza studiare la tecnica o il linguaggio. Kiarostami aveva cercato qualcosa da narrare e l’aveva raccontata. Per questo suo modo di lavorare non era amato dai professori di cinema di Teheran. Per loro era un selvaggio, un autodidatta, che “maleducava” i suoi allievi dei laboratori, in giro per il mondo. One day shooting, si intitolava il suo corso. E si arrivava a girare davvero in un solo giorno. Perché proprio in quell’immediatezza c’è la forza del suo realismo cinematografico.

Forse per questo, il passaggio al digitale fu per lui assolutamente naturale. Com’era avvenuto per Pasolini, altro selvaggio del linguaggio cinematografico, si recò nel continente africano con una camera amatoriale. Pasolini utilizzò una 16mm per registrare le sue note, che divennero gli Appunti per un’orestiade africana (1970). Kiarostami portò con sé una Sony PC100, una poverissima Mini-DV, con la quale realizzò Abc Africa. In entrambi i casi l’urgenza espressiva ebbe la prevalenza sulla tecnica. In entrambi i casi, la sincerità e l’onestà della rappresentazione erano alla base dei loro progetti. Il realismo non è nella scrittura di un film. È nello sguardo del suo autore, nell’approccio con cui si sceglie il punto macchina, in cui si tiene una sequenza in tempo reale. Per questo voglio ricordare qui due scene, due esempi perfetti della ricerca cinematografica di Kiarostami.

La prima è la sequenza finale, in video, del film in 35mm Il sapore della ciliegia. Riprese trovate, di una fine non fine, di una narrazione non conchiusa, ma lasciata in forma di bozza per dar spazio allo spettatore, alla ricezione, alla negoziazione dei significati da parte di chi guarda.

La seconda è una scena del suo documentario africano, girata interamente al buio. Kiarostami dialoga con i membri della troupe. Si trovano in un villaggio ugandese, che a mezzanotte stacca l’erogazione dell’energia elettrica. Si sentono solo le voci, spaesate, che commentano in lingua farsi e i sottotitoli bianchi brillano nel buio pesto: «se ne va la vita… Non posso pensare nessun altro posto in questo mondo dove il sole possa essere più prezioso e benvenuto. Vivono metà della loro vita tra queste mura buie come dei ciechi. La nostra unica fortuna, come uomini, è che possiamo adattarci a tutto». Lo schermo è nero, per poco meno di otto estenuanti minuti. Lo Spettacolo negato diventa un’esperienza spettatoriale. È questo il realismo di Kiarostami, la sua forza espressiva è tutta nella capacità di rinunciare a ciò che è superfluo, che è costruzione tecnica, sovrastruttura ideologica. Il cinema è luce? E lui per quasi otto minuti la spegne, la luce. Ma quando fuori dalla finestra l’alba illumina i contorni della stanza, è come se fosse la prima inquadratura della storia del cinema. È come se facessimo l’esperienza di guardare, per la prima volta, l’uscita dalla fabbrica dei fratelli Lumière.